La responsabilità dell’appaltatore nel caso della ristrutturazione edilizia
Avv. Federico Palumbo – Una tematica che ha particolare interesse nel contesto attuale è senza ombra di dubbio quella della responsabilità dell’appaltatore nel caso dell’attività di ristrutturazione edilizia e, in speciale modo, per i difetti dell’opera riscontrati dal committente.
In questo senso, ad assumere rilievo primario è l’art. 1669 c.c., ai sensi del quale “Quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta”.
Orbene, se è sempre stato assolutamente pacifico in giurisprudenza che tale disposizione debba trovare applicazione non solo nel caso delle nuove costruzioni, ma anche in relazione alle opere aggiuntive realizzate in edifici preesistenti (purché dotate di una propria autonomia), più problematica è stata la questione relativa all’estensione di tale disciplina anche all’ipotesi dei ‘semplici’ lavori di ristrutturazione, ovverosia di interventi che non implicano la relazione di una nuova opera, ma il mero rifacimento di una preesistente.
Sul punto, dopo ampio dibattito, si osserva come ad oggi dottrina e giurisprudenza siano concordi nell’adottare una nozione estensiva del concetto opera, tale da includere anche l’attività di ristrutturazione sul presupposto che “l’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo” (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 27/03/2017, n. 7756 – rv. 643560-01).
Un’estensione che, come precisato dalle Sezioni Unite, “tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c., dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale”, rendendo di conseguenza anche “ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma” (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 27/03/2017, n. 7756 – rv. 643560-01).
Quanto invece alla nozione di grave difetto, come sempre precisato dalla giurisprudenza, “costituiscono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardino una ristrutturazione edilizia ed incidano su elementi secondari e accessori, purché tali da compromettere la funzionalità globale e la normale utilizzazione dell’immobile, secondo la destinazione propria di quest’ultimo” (Cass. civ. Sez. II Ord., 25/07/2019, n. 20184).
A titolo esemplificativo, quindi, nella casistica giurisprudenziale sono stati ritenuti vizi suscettibili di rientrare nell’ambito dell’art. 1669 c.c., in quanto idonei a pregiudicare il normale utilizzo del bene ristrutturato: la presenza di crepe che denotano problematiche strutturali, la presenza di un numero non trascurabile di fessure sull’intonaco anche se prive di conseguenze strutturali, o, ancora, il verificarsi di infiltrazioni dovute a difetti nell’impermeabilizzazione effettuata durante la ristrutturazione.
La responsabilità dell’appaltatore, tuttavia, non si arresta al solo art. 1669 c.c., giacché a tale azione il codice civile invero affianca le garanzie relative alle difformità ed ai vizi dell’opera (artt. 1667 e 1668 c.c.), dalle quali non deriva una semplice responsabilità risarcitoria, ma il potere, in capo al committente, di chiedere alternativamente la loro eliminazione a spese dell’appaltatore, la riduzione proporzionale del prezzo, ovvero la risoluzione del contratto, salvo sempre il diritto al risarcimento del danno (artt. 1667-1668 c.c.).
In particolare, si rappresenta che il concetto di difformità riguarda tutte quante le ipotesi in cui sia possibile individuare una non corrispondenza tra l’opera eseguita e le previsioni del contratto, mentre costituiscono vizi di costruzione tutti quei difetti figli della mancata osserva delle ordinarie regole di costruzione.
Ebbene, tra le tre norme sopra citate sussiste un rapporto di genere e specie, nel senso che l’art. 1669 c.c., nella sua portata estesa, si presenta come norma di specie rispetto ai rimedi generali previsti dagli artt. 1667 e 1668 c.c.; una specialità che si manifesta in particolare nel diverso termine di decadenza che, rispetto alle due norme generali, non è di 60 giorni dalla scoperta del vizio, ma di un anno dalla scoperta del difetto.
In altri termini, non solo le azioni previste dalle tre norme si possono cumulare tra di loro, ma l’azione scaturente dall’art. 1669 c.c. può essere avviata anche in caso di decadenza dalle azioni di cui agli artt. 1667 e 1668 c.c., le quali, tuttavia, è bene precisare, si fondano su presupposti parzialmente diversi, giacché le nozioni di vizio e difformità non sono del tutto sovrapponibili a quella di grave difetto citata dall’art. 1669 c.c. che implica un’anomalia più grave.