La nullità del licenziamento ritorsivo

Avv. Federico Palumbo – Il licenziamento ritorsivo costituisce un particolare ipotesi di cessazione di un rapporto di lavoro che fondamentalmente si caratterizza per la natura vendicativa, e quindi illegittima, del provvedimento assunto dal datore di lavoro, adottato non per sanzionare comportamento scorretti, ma semmai per ‘punire’ il lavoratore per un comportamento legittimo espressione dei suoi diritti (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 19/02/2015) 16-07-2015, n. 14928).

Più nel dettaglio tale fattispecie è il risultato di un’interpretazione estensiva del divieto di licenziamento discriminatorio, mediante cui è stata fatta rientrante l’area dei singoli motivi vietati, e quindi nelle ipotesi di nullità del licenziamento stesso, anche quei casi in cui l’unica ragione del provvedimento espulsivo possa essere identifica nell’ingiusta ed arbitraria reazione a comportamenti risultati sgraditi all’imprenditore.

Il licenziamento può perciò essere definito ritorsivo ogni quale volta esso sia comminato come ingiusta e arbitraria reazione ad un qualsiasi comportamento legittimo del dipendente (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087) ed in questi casi il recesso deve essere considerato nullo, con conseguente la reintegrazione nel posto di lavoro e diritto ad ottenere il pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento sino alla riammissione in servizio, e ciò anche sotto il regime legale previsto dalla cd. Legge Fornero (L. n. 92/2012) o dal cd. Jobs Act (D.Lgs. n. 23/2015).


Presupposti della nullità del licenziamento ritorsivo

Fermo restando quando sinora esposta, è tuttavia bene precisare che la presenza di una finalità ritorsiva alla base del licenziamento non necessariamente implica la nullità dello stesso, giacché, ove il lavoratore deduca in giudizio il carattere ritorsivo del licenziamento, è comunque necessario che tale intento abbia avuto un’efficacia determinate ed esclusiva nella causazione del licenziamento.

In altri termini, la finalità ritorsiva può concorrere con un motivo di licenziamento lecito e può parlarsi di nullità solo nella misura in cui quest’ultimo, pur formalmente addotto nel provvedimento di espulsione, risulti non sussistente nel riscontro giudiziale e, di conseguenza, sia possibile giungere ad affermare che il licenziamento non sarebbe stato intimato in assenza della motivazione ritorsiva (Cass. sez. lav., 16 febbraio 2021, n. 4055).

Da ciò ne deriva che l’esistenza di un motivo legittimo di licenziamento (formalmente addotto nel provvedimento) di base esclude il carattere ritorsivo dello stesso e per poterne affermare la nullità occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.

Tale prova, inoltre, è particolarmente stringente, giacché non è sufficiente la mera deduzione di situazioni potenzialmente idonee a generare acredine da parte del datore di lavoro, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento (Cass. civ. Sez. lavoro, 14/07/2005, n. 14816).