Approccio all’enfiteusi: dalla verifica del diritto al calcolo del canone

Enfiteusi e canone

  • La verifica del diritto

La prima problematica da affrontare nel momento in cui si parla di enfiteusi riguarda l’effettiva esistenza del rapporto stesso e ciò perché per poter rivendicare la posizione di concedente di un fondo concesso in enfiteusi occorre ovviamente  dimostrare la sussistenza del proprio diritto attraverso la produzione di un atto pubblico di acquisto del bene e/o di un atto costitutivo del rapporto enfiteutico.

Tale questione, ben lungi dall’essere banale, assume una valenza particolarmente importanto soprattutto nel caso delle enfiteusi ecclesiastiche, che di norma risalgono ad epoca molto remota, e per cui, come è ovvio, spesso se non sempre, non è possibile rinvenire l’atto costitutivo (il più delle volte stipulato in periodi storici in cui non eraneppure richiesta la forma scritta per la valida costituzione del rapporto). In tali situazioni la prova del diritto di concedente può e deve essere data “per equipollenti” (secondo una definizione coniata dalla dottrina di inizio novecento), vale a dire attraverso l’indicazione di elementi di prova alternativi.

La verifica eseguita presso i registri catastali, primo ed indispensabile strumento di ricognizione del patrimonio immobiliare, di per sé non è però sufficiente a fondare una rivendicazione del diritto anche in caso di esito positivo, in quanto le risultanze catastali non hanno valore probatorio, ma solo indiziario. Ad esse, quindi, occorre sommare altri riscontri, il più importante e significativo dei quali è senza dubbio la menzione dell’enfiteusi in atti pubblici aventi ad oggetto l’immobile. In casi particolari è possibile provare a rivendicare il diritto di concedente anche in assenza di riscontri presso la Conservatoria dei Registri immobiliari, qualora le risultanze castali siano confermate da altri elementi indiziari con esse concordanti, quali l’avvenuto pagamento di un canone, la menzione del rapporto in registri interni, o il riconoscimento del diritto in documenti sottoscritti direttamente dagli enfiteuti (si pensi ad esempio alle richieste di variazione catastale, a volte firmate direttamente dal richiedente, oltre che dal tecnico incaricato).

A prescindere da simili ipotesi, che il più delle volte vanno ascritte nel novero delle situazioni dubbie, di norma il diritto di concedente è legittimamente rivendicabile ove di esso sia stata fatta menzione in atti pubblici aventi ad oggetto l’immobile. Qualora l’enfiteuta abbia acquisito il fondo in forza di un atto pubblico che, pur prevedendo il trasferimento della proprietà del bene, attesta il suo assoggettamento ad un canone, il diritto di concedente può essere legittimamente rivendicato, anche perché, al di là della terminologia utilizzata nell’atto, l’enfiteuta, proprio in virtù dell’avvenuta menzione del canone, non può aver acquisito la piena proprietà dell’immobile. Di contro, qualora l’immobile sia stato acquistato in forza di un atto stipulato in buona fede che non fa menzione alcuna della sussistenza del rapporto enfiteutico e che è stato regolarmente trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari, decorsi dieci anni dalla trascrizione l’enfiteuta ne acquisisce comunque la piena proprietà per usucapione, a prescindere dal tenore dei precedenti atti di trasferimento del medesimo immobile.

L’accertamento del diritto di concedente è un tema complesso, che meriterebbe una trattazione ben più dettagliata, ma come indicazione di massima si può dire che l’ordinamento, da una parte, consente all’originario concedente di rivendicare il proprio diritto nei casi in cui l’enfiteuta non possa ignorarne la sussistenza, se non per propria colpa (a prescindere dalle risultanze catastali), e, dall’altra parte, nega tale possibilità tutte le volte in cui del rapporto enfiteutico si sia persa traccia nel corso del tempo, ed in cui si sia creato quindi un preciso e consolidato affidamento nel possessore del fondo, correttamente ritenuto meritevole di tutela.

  • I criteri di determinazione del canone

La regolamentazione dell’enfiteusi, ed in particolare la disciplina relativa al calcolo ed all’aggiornamento dei canoni, è dettata da due leggi speciali (n. 607/1966 e n. 1138/1970), le quali prescrivono criteri di determinazione dei canoni enfiteutici limite indicando come parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi anteriori al 28 ott. 1941, e la quindicesima parte dell’indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente. In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a quindici volte il canone.

Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è pronunciata a più riprese la Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità della normativa sotto diversi profili, modificandone profondamente la portata. Sia per la L. 607/1966 sia per la L. 1138/1970, in particolare, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dei criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale vero e proprio principio generale della materia, la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l’applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei “a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica” (sentenze n.ri 406 del 7 aprile 1988 e 143 del 23 maggio 1997).

L’intervento della Consulta, in definitiva, da un lato ha sostanzialmente uniformato fra loro le due discipline, originariamente diverse, facendo sì che i principi dettati per le enfiteusi successive al 1941 trovino applicazione anche ai rapporti costituiti anteriormente; dall’altro lato ha dettato una regola generale secondo la quale il canone enfiteutico – e di conseguenza il capitale di affranco – devono essere determinati in modo da assicurarne la corrispondenza alla realtà economica. In base a quali criteri debba essere garantita tale corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha detto, né avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore dettare una regolamentazione della materia, ma, una volta venuti meno i criteri inizialmente prescritti dalle due normative dichiarate incostituzionali, la disciplina non è mai stata integrata attraverso una nuova regolamentazione della materia, la quale, di conseguenza, allo stato risulta caratterizzata da un vero e proprio vuoto normativo.

In mancanza di parametri di riferimento certi per la determinazione e/o l’aggiornamento dei canoni enfiteutici, nel corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni di varia natura e portata. Tra le diverse opzioni prospettate mi limito a segnalare, in considerazione della sua autorevolezza e della sicura convenienza per i concedenti, una circolare del Ministero dell’Interno, la n. 118 del 9 sett. 1999, volta a individuare i criteri che le pubbliche amministrazioni sono tenute ad applicare per il calcolo del capitale di affranco degli immobili gravati da enfiteusi, e conseguentemente per l’aggiornamento del canone. La circolare, dopo aver recepito il principio implicitamente sotteso all’ultima pronuncia della Consulta secondo cui alle enfiteusi anteriori al 1941 deve trovare applicazione una disciplina analoga a quella prevista per i rapporti instaurati successivamente, e dopo aver ricordato che per calcolare il capitale di affranco delle enfiteusi più recenti il legislatore aveva fatto riferimento all’indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 (con una norma, l’art. 2 L. 1138/1970, poi ritenuta anch’essa illegittima dalla Corte Costituzionale perché non sufficientemente adeguata alla realtà economica), ha affermato che, nel vuoto normativo creato dalle sentenze citate, mai colmato dal legislatore, il criterio alternativo simile che appare più affidabile, e come tale deve essere utilizzato nel calcolo del capitale di affranco, è quello dettato per il computo dell’indennità di esproprio ordinaria, che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell’area da espropriare, stabilito annualmente da rilevazioni operate da un’apposita commissione regionale.

Tale soluzione, che equipara il capitale di affranco all’indennità di esproprio, anche se può essere certamente utile per i concedenti, ad avviso di chi scrive appare eccessivamente penalizzante per gli enfiteuti, e come tale non merita di essere condivisa, anche perché non tiene nella dovuta considerazione la natura intrinseca dell’istituto dell’enfiteusi.

Ben più corretto appare invece l’utilizzo di altro criterio concepito in modo da determinare soluzioni che fossero il più eque possibili, riducendo al minimo il margine di discrezionalità nella quantificazione dei canoni enfiteutici. Suddetta modalità di quantificazione del canone implica innanzitutto l’individuazione del valore dell’immobile, a seconda che lo stesso abbia una destinazione agricola, sia edificabile, ovvero sia stato concretamente edificato dall’enfiteuta o dai suoi danti causa.

A quest’ultimo riguardo, attesa la confusione che spesso caratterizza l’argomento, è opportuno aprire una breve parentesi per precisare come nel calcolo del capitale di affranco di un terreno edificato si debba necessariamente tenere conto della presenza del fabbricato. Poiché il concedente è proprietario del suolo, il fabbricato ivi realizzato senza il suo consenso – non potendo essere considerato miglioria o addizione in quanto incompatibile con le finalità proprie dell’enfiteusi – rientra nella nozione di opera fatta su un fondo da un soggetto terzo con materiali propri, di cui all’art. 936 cod. civ., per cui il fabbricato viene acquisito per accessione al patrimonio del concedente dell’area, salvo ovviamente il riconoscimento dell’indennizzo previsto dallo stesso art. 936 cod. civ., in ragione per cui si ritiene corretto far riferimento non all’intero valore del fabbricato, ma soltanto alla differenza tra detto valore e il costo di costruzione, come si dirà meglio di seguito. Quanto precede, ed in particolare la necessità di tenere conto della presenza di fabbricati, è stata autorevolmente confermata dall’Avvocatura dello Stato con parere n. 8475 del 19.12.1991 – richiamato dall’Ufficio Provinciale del Demanio di Chieti nell’elaborazione di conteggi redatti per affranchi di terreni edificati – nel quale è correttamente rilevato come la realizzazione di fabbricati su terreni concessi in enfiteusi, se decisa autonomamente dal livellario, non possa considerarsi “miglioramento o addizione” del fondo, ma debba essere intesa come attività edificatoria non autorizzata dal proprietario dell’area, e, quindi, come intervento che l’enfiteuta non avrebbe avuto diritto di eseguire. In senso analogo, e in modo ancor più autorevole, il Consiglio di Stato in sede consultiva, con parere n. 661/1998, ha precisato che l’attività di miglioria richiesta all’enfiteuta, ai sensi dell’art. 960 cod. civ., deve ritenersi intrinsecamente connessa alla natura del fondo stesso, nel senso che sul fondo rustico l’enfiteuta dovrà apportare miglioramenti fondiari in armonia con la natura rustica dell’immobile; mentre esula da ciò ogni attività di trasformazione edilizia che, ove non presa in considerazione ai fini della revisione del canone, potrebbe giustificare operazioni speculative a danno dell’amministrazione.

Livello ed enfiteusi

Ciò precisato, nel tornare ai criteri di determinazione del canone, ed in particolare al primo e principale elemento consistente nella stima del valore dell’immobile, si ritiene che il punto di riferimento, per i terreni agricoli, che il concedente deve utilizzare sia il valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell’area da espropriare, pubblicato annualmente sul bollettino regionale (lo stesso parametro prescelto dal Ministero dell’Interno, anche se nell’ambito di un criterio di calcolo diverso, come si vedrà di seguito), e, per quel che concerne le enfiteusi edificabili, al valore attribuito agli immobili dalle singole amministrazioni locali ai fini del pagamento della relativa tassa comunale.

Nei casi in cui su un terreno gravato da enfiteusi sia stato realizzato un fabbricato, invece, il parametro da prendere in considerazione deve essere il valore in base alle rilevazioni dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, applicate sempre nella misura minima (al fine di prevenire contestazioni), detraendo dal valore dell’edificio così ottenuto il suo presumibile costo di costruzione, in modo da determinare l’incremento di valore dell’immobile al netto della spesa sostenuta dall’enfiteuta.

Una volta determinato il valore dell’immobile, in base ai criteri suindicati, il concedente non dovrà però equipare tale valore al capitale di affranco, come suggerito dal Ministero dell’Interno, ma, in considerazione del fatto che il rapporto enfiteutico implica, sia pure indirettamente, una ripartizione degli utili del fondo tra concedente ed enfiteuta, ovvero prevede la corresponsione di un canone astrattamente assimilabile ad un affitto, dovrà determinare un rendimento presunto dell’immobile di competenza del concedente che, in mancanza di rilevazioni oggettive o di dati affidabili sul rendimento del mercato immobiliare, specie di quello agricolo, si può individuare nella misura del 2,5%, pari al tasso legale medio degli ultimi venti anni.

In applicazione dei criteri suindicati, il canone annuo richiesto agli enfiteuti ammonta quindi al 2,5% del valore dell’immobile come sopra determinato, e il capitale che deve essere versato per l’affrancazione dei fondi è pari al 37,5% (15 volte il canone) del valore dell’immobile, sempre calcolato in base ai criteri oggettivi di cui sopra. Tale criterio di calcolo, come detto, è stato scelto nella convinzione di una sua effettiva equità, e, nel corso del tempo, ha trovato autorevole conforto anche nella giurisprudenza delle Sezioni Specializzate Agrarie del Tribunale di Chieti, che ha fatto proprio ed applicato esattamente il criterio di calcolo, riconoscendo al concedente il diritto a percepire un canone aggiornato di pari misura.

Giornata studio sull’enfiteusi Roma, 26 marzo 2014

Avv. Giovanni Moscarini